Alla luce della documentazione ad oggi pervenuta è difficile tracciare un soddisfacente profilo biografico di Francesco Franchetti. La corrispondenza recentemente pubblicata[1] e gli appunti di viaggio attestano i prolungati e frequenti spostamenti dell’artista nell’Africa del Nord e in Europa (Berlino, Parigi), ma sono lacunosi negli anni e avari nelle datazioni. Lo stesso Giovanni Colacicchi, l’allievo e amico che ha curato la monografia e la mostra del Maestro nel 1979[2], ci presenta l’uomo-artista e ne descrive l’opera, ma è vago nei riferimenti biografici e impreciso nel segnalare gli accadimenti significativi della tribolata esistenza del pittore.
Dalle testimonianze degli amici e dalle lettere emerge un Franchetti dalla personalità complessa ed introflessa, uomo sensibilissimo e raffinato, dall’eclettica cultura letteraria e figurativa e dai molteplici interessi. Temperamento inquieto, generoso e leale, contava tanti amici ma era schivo e solitario per vocazione, autocritico e impietoso con se stesso e con la propria opera. Avendo dell’arte un altissimo concetto, la sua volontà creativa si scontrava con l’incapacità, profondamente sofferta, di non sapersi realizzare pittoricamente (… sarebbe più dignitoso non far nulla ci sono cose troppo belle per permettersi di dipingerle tanto miseramente, scrive il 4 febbraio 1911, Cagianelli, p.118). Un’esistenza la sua fortemente tormentata, in continua tensione, intrappolata in lunghi mesi di cupa depressione (era una pena allora vedere quanta fatica facesse per sopravvivere, Colacicchi, p.11) alternati a periodi di intensa volontà di rinascita che coincideva in lui con una irrefrenabile volontà di partire, assolutamente liberatoria, per la sognata Africa dove il suo animo si acquietava e dove riusciva a riemergere dal male oscuro per dipingere anche allegramente (Colacicchi, p.11).
Francesco nasceva a Livorno il 4 luglio 1878 da Federico Franchetti e da Fortunée Coriat, ebrea oriunda tunisina, che darà alla luce altri tre maschi, Alessandro, Augusto e Umberto, e una bambina, Celestina, l’amatissima sorella che morirà diciassettenne (1884-1901)[3]. I Franchetti insediati a Livorno erano ebrei sefarditi provenienti dal Marocco. La colta e facoltosa famiglia, che aveva stretti rapporti di parentela e di amicizia con le più altolocate casate di ambiente ebreo residenti in Italia, anni dopo si trasferiva a Firenze. Le agiate condizioni economiche consentirono a Franchetti di seguire senza difficoltà la propria inclinazione artistica.
Il suo apprendistato pittorico si attuava a Roma, presso Cesare Maccari (1840 – 1919) che dalla natia Toscana si era stabilito nella capitale dove si era espresso nelle decorazioni e negli affreschi delle aule del Senato (1888) che lo avevano reso celebre. Pittore di storia aggiornato, Maccari dotava il giovane di una preparazione artistica puntuale, con particolare cura del disegno, ma incideva limitatamente sulla sua personalità. Franchetti dal maestro non ereditava né il rigore accademico né gli interessi tematici, ne ereditava però la competenza tecnica, condividendo con lui la passione del “fare pittura” in senso pratico e impossessandosi del mestiere di artista-artigiano. Agli antichi segreti dei procedimenti e delle tecniche pittoriche, Francesco aggiunse una intensa attività di copista (Dürer, Giorgione e gli amati pittori toscani del Rinascimento).
La sua formazione culturale negli anni romani (1896-1900) si compiva perciò al di fuori degli insegnamenti del maestro purista, ed è da assegnare ad altre stimolanti suggestioni che per il momento possiamo ipotizzare, ma che riteniamo plausibili: la conoscenza del pittore Francesco Paolo Michetti, amico di D’annunzio, di cui Franchetti apprezzava in particolare le impegnative, enormi tempere delle Serpi e degli Storpi (1900), e i contatti con l’ambiente artistico che gravitava intorno alla personalità di grande rilievo del vecchio Nino Costa (1826 – 1903). Negli anni a cavallo del Secolo egli si divideva tra Bocca d’Arno e Roma, riunendo intorno a sé le giovani generazioni artistiche locali e un eletto ambiente internazionale, per lo più composto da pittori inglesi e americani. In questa direzione si giustificano i gusti artistico-culturali di Franchetti: il suo importante e significativo culto per i primitivi toscani e il suo interesse per il movimento preraffaellita, molto sentito nella Capitale di fine Secolo, che era centro di confluenza del dilagante estetismo dannunziano, delle tendenze idealistiche e letterarie del gruppo dei pittori paesisti raccolti nell’associazione fondata da Costa In Arte Libertas (1886-1904) (Ricci, Cellini, Carlandi, De Carolis, Sartorio, Cambellotti ecc.) e degli orientamenti filosofici dell’intellighentia romana che si riuniva intorno ai tavoli del Caffè Greco.
Le prime prove che conosciamo di Franchetti sono ascrivibili al 1898-1900. Si tratta di alcune buie e dilatate navate di chiese secolari, silenziose testimoni del transito dell’umanità e del perpetuo fluire delle sue generazioni (fig. 1) e di Contadinello che porta la frutta al padrone (fig. 2), dipinto realizzato con una pittura scabra e asciutta e dominato da un senso quasi astratto dello spazio che ci riporta alle atmosfere irreali e sospese di certi interni cecioniani.
Franchetti nel primo decennio del Novecento si dedicava soprattutto alla pittura all’aperto, lavorando dal vero sul motivo della campagna. Delle colline laziali, umbre e toscane egli ci ha lasciato una serie di tavolette che sono piccoli e preziosi poemi della natura. Opere che rivelano assonanze con la maniera del Costa per il taglio quasi sempre sviluppato nel formato orizzontale e per il dato naturale osservato da un punto di vista ravvicinato, che tuttavia Francesco non analizza con l’esattezza minuziosa e con l’insistito studio dei particolari che caratterizza la produzione del vecchio maestro. Francesco sofferma lo sguardo sul susseguirsi morbido delle colline, esplora l’ampiezza sconfinata degli spazi – forse nell’anelito di andare oltre l’orizzonte -, appropriandosi ben presto di un linguaggio personale definito, semplice e autentico.
Nelle vedute di notazione abbreviante del livornese si respira, sì, l’immutabile eternità della natura, ma anche la storia di cui sono carichi i borghi medievali insediati sulle colline, storia che trasuda dalle mura, dalle torri, dalle pietre che compongono i campanili, le case e i monasteri. Dall’impronta aristocratica, i suoi paesaggi rimandano agli spirituali sfondi dei primitivi toscani. Franchetti nelle tavolette sa infondere una larga serenità di sentimento (che sappiamo era ben lungi dal provare personalmente) ottenuta con un linguaggio disegnativo equilibrato, un tocco fluido e leggero e una stesura magra e asciutta come quella degli antichi: poche linee e pochi colori, veri, scelti nelle gamme cromatiche tonali, talvolta sobriamente monocrome.
L’artista non cerca la luce intensa del giorno, predilige quella che si dissolve prossima al tramonto e insiste sull’armonia malinconica e dolente dell’imbrunire, con sensibili effetti emozionali. Il paesaggio assume inflessioni simboliste, ora sottili come in Cipressi, ora più scoperte come nell’incantato brano narrativo dell’Attesa, ora con esiti drammatici come in Veduta dall’alto, dove l’artista mostra di aver risentito anch’egli dell’influsso che la personalità di Arnold Böcklin andava ampiamente esercitando nella Firenze a cavallo dei due secoli.
Conclusosi il periodo romano e rientrato a Firenze, Franchetti si presentava dal 1901 al 1905 alle esposizioni annuali organizzate dalla Società delle Belle Arti cittadina. Poi a partire dal 1906 i pittore si astenne intenzionalmente da ogni competizione pubblica, come d’altronde pur frequentando tanti artisti, non sentì mai l’esigenza di aderire a gruppi e a movimenti pittorici. Il fratello Alessandro, quando Francesco era impegnato sul fronte trentino, ruppe il più che decennale silenzio espositivo dell’artista, organizzandogli quasi a sorpresa una mostra a beneficio dei mutilati di guerra, nell’aprile del 1918, per presentare al pubblico fiorentino la produzione orientalista e alcuni recenti schizzi di guerra. Franchetti manterrà tenacemente nel tempo la volontà di non esporre e si presenterà con un solo quadro (Rose) soltanto a un’altra esposizione pubblica, la Primaverile Fiorentina del 1922.
Accanto all’interesse per il paesaggio, nel primo decennio del Novecento, Franchetti manifestava anche quello per la figura umana, sviluppatosi verosimilmente in coincidenza con l’incontro con Ebe Giraldi (1873-1968); incontro determinante nella vita dell’artista che resterà legato da un forte vincolo d’amore prima e di salda amicizia poi con la donna che nel marzo del 1907 gli darà il suo unico figlio Simone (1907-1990), che crescerà seguito ed educato amorevolmente da entrambi i genitori anche quando la loro storia d’amore si concluderà e le loro vite si divideranno. Quando Francesco conobbe Ebe, ella viveva separata da Orazio Filippo Gargallo dei Marchesi Castellentini di origine siracusana ma residente in Toscana, con il quale si era sposata nel 1892. Ebe conduceva un’esistenza indipendente e disinvolta, fuori dalle regolate consuetudini borghesi dell’epoca. Fornita di una viva intelligenza e di una notevole cultura, era un’intellettuale un po’ eccentrica con una intensa passione per il teatro e per la letteratura. In stretti rapporti di amicizia con Gabriele D’Annunzio e con Ardengo Soffici, frequentava gli ambienti artistico-letterari fiorentini, scriveva[4] e talvolta calcava il palcoscenico. Non troppo ben vista dalla famiglia Franchetti, Ebe diventava la compagna dell’artista che la eleggeva a Musa ispiratrice secondo quell’ideale femminile stilnovistico tipico della sensibilità preraffaellita e simbolista.
Franchetti ha elaborato intensi brani pittorici, di grande qualità, prendendo a modello i lineamenti puri e gentili di Ebe Giraldi. Sono composizioni di equilibrata armonia dal sapore nobile, caratterizzate da una stesura del colore magra e compatta, con esiti estetici affini alla ritrattistica quattrocentesca presa a modello. Il taglio dell’inquadratura, l’austera semplicità della posa, il rigore formale danno un senso di pacata eternità all’effigiata il cui volto si staglia su un fondo scuro omogeneo (Profilo di Ebe, Ritratto di Ebe) o su un tessuto prezioso (Ebe di profilo). Anche nei dipinti coevi che ritraggono altri modelli troviamo una intonazione linguistica analoga, come nel bel ritratto del Ragazzo marchigiano che dal primo piano campeggia uno sfondo paesistico essenziale composto da sintetiche campiture cromatiche orizzontali. L’artista ci ha lasciato numerose immagini di Ebe, non solo cogliendone il volto o il mezzobusto, ma raffigurazioni per intero e felicemente contestualizzate, di propensione preraffaellita, come Ebe alla finestra (fig.3) e Ebe in giardino, suggestivo dipinto di impegnative dimensioni che è presente in mostra.
Il 1909 è l’anno che conduce Francesco per la prima volta nel Nord Africa, è amore a prima vista. L’artista è incantato dalla luce e dai colori di quel paesaggio e di quegli spazi di incontaminata bellezza, sedotto dai ritmi e dagli usi di quella terra che sembra offrirgli gli strumenti per uscire dalla depressione che gli affatica l’animo e con la quale continuamente convive (sento la vita sfuggirmi come l’acqua da un vaso spaccato senza sapere dove sia la rottura, Cagianelli p.118). L’Africa gli infonde una forza rigeneratrice che lo porta a vivere in sintonia con se stesso[5] e a rinnovarsi pittoricamente; il colore per il momento resta ancora misurato e tendente alle terre ma si fa più materico e vellutato, mentre la pennellata diventa mossa e macchiata. Di questo primo periodo africano (1909-1912) abbiamo in mostra qualche bel disegno e alcune felici impressioni dal vero (Mercato arabo, Nel souk, Cammelli in sosta, Oasi nel deserto, Interno arabo) che esprimono un ritrovato vitalismo nel tocco veloce del pennello e nell’immediatezza della resa, una pittura impulsiva e naturale che si qualifica per la sua spontaneità, non vi è infatti traccia di orientalismo esibito o di folclore pittoresco, i motivi e le scene che Franchetti ritrae sono presi dalla quotidianità dell’esistenza araba. Nei soggetti africani compaiono finalmente e con evidenza le persone, la popolazione, in breve la figura umana, per lo più sempre omessa nel contesto dei paesaggi italiani. L’Oriente per Franchetti ha rappresentato un’esperienza pervasiva, in arte, così come nella vita, al punto che i suoi paesaggi tunisini evitano l’impasse della narrazione esotica alla moda o dell’ambizione storicistica, fino ad adombrare vere oasi spirituali, osserva Francesca Cagianelli che ha ampiamente studiato il percorso orientalista dell’artista, evidenziandone le autonomie e inquadrandolo storicamente e artisticamente nel panorama della cultura italiana del primo Novecento.[6]
I suoi soggiorni in Tunisia, in Palestina, in Egitto, il suo spostarsi, spirito nomade, di villaggio in villaggio per tutta l’Africa Settentrionale, coincideva con il suo desiderio di appartarsi e di affrancarsi dalle convenzioni del vivere civile. Sdegnando la frequentazione dei numerosi touristes che infestano il paese (Cagianelli, p. 122), Franchetti si mescolava all’ambiente e si permeava di cultura mediorientale, fino ad assumere consuetudini e atteggiamenti che si porterà dietro anche quando rientrerà a Firenze (E’ un orientale, di origine e di temperamento, scriveva Mario Tinti presentandolo alla Primaverile del ’22)[7]. Nel studio che Franchetti aveva all’ultimo piano della Torre degli Armidei (che un tempo era in Via Por Santa Maria)[8], l’artista soleva vestirsi all’araba con il burnùs ed il turbante, assumendo quell’aspetto esotico e misterioso, di cui ci narra Ottone Rosai (v. in Colacicchi, pp. 25-26), e con i suoi modi evocava l’Oriente, incantando coloro che andavano a fargli visita.
Per tutti gli anni Dieci durante le permanenze fiorentine, alternate ai soggiorni africani, Franchetti continuò a frequentare i cari amici Ardengo Soffici e Giannotto Bastianelli, compositore d’avanguardia e raffinato pianista, ma anche Carlo Barbieri, Aldo Palazzeschi, Gino Carlo Sensani, Raffaello Franchi, Alessandro Bonsanti e tutta la consorteria artistico-letteraria riunita nel Caffè Le Giubbe Rosse. Come ci rivela Giovanni Colacicchi, che Franchetti avrà come allievo nei primi anni Venti, una particolare influenza sullo svolgimento dell’arte di Francesco fu esercitata dai rapporti di consuetudine intercorsi con Gustavo Sforni, giovane intellettuale colto ed aggiornato, artista e sensibile collezionista, che ha avuto un peso non indifferente sullo sviluppo del clima estetico toscano nel Primo Novecento. Tramite Sforni il pittore livornese si avvicinava al postimpressionismo europeo, a partire del 1913 le sue opere documentano la sperimentazione e la trasformazione in senso modernista del suo linguaggio pittorico. Spariscono le terre dalla sua tavolozza, la pennellata si rompe in tocchi martellanti, insistenti nella ricerca d’una più accesa luminosità e nello sforzo di rendere quell’attimo in cui luce e movimento coincidono (Colacicchi, p. 179).
Il cambiamento nelle gamme cromatiche che si illimpidiscono e nel segno che si vivacizza, già largamente sensibile in Simone col cappello di paglia, esplode seducente in Riflessi nello stagno e in Nudo all’aperto (1915), che è un libero omaggio dell’artista alla Lilia di Carolus-Duran che Franchetti ebbe modo di apprezzare visitando il Museo del Lussemburgo a Parigi. In questa nuova fase evolutiva in cui la tavolozza si accende e la pennellata si fa dinamica e convulsa (Cagianelli p.) le composizioni, per quanto fluide e mosse, mantengono quella coerente e ben strutturata sintassi costruttiva che da sempre qualifica la poetica pittorica di Francesco. Non solo la produzione orientalista – luminosa e pulsante, esuberante nei toni, ritmata e fluente nel tocco – realizzata dal 1913 (gli olii e i pastelli) è stigmatizzata dal nuovo stile, ma anche le nature morte, che sono motivo di indagine per l’artista a partire dalla seconda metà anni Dieci. In mostra sono presenti alcune composizione che esemplificano questo nuovo interesse, Dalie in vaso e le tecniche miste di qualche anno posteriori, Drappo e giunchiglie, Tavola apparecchiata e Natura morta con arance, tre opere caratterizzate dal formato fortemente verticalizzato, osservate da un punto di vista elevato con un ribaltamento della prospettiva.
Negli anni Venti l’attività pittorica di Franchetti si fece più discontinua, al suo consueto repertorio artistico si aggiunsero nuove ricerche, come gli studi di pesci e di fauna marina, interesse che era maturato visitando l’acquario di Napoli. La città partenopea che Francesco raggiungeva in compagnia di Giovanni Colacicchi e con il figlio Simone gli offrì l’opportunità di vedere dal vero gli affreschi che Hans Von Mareé (1837-1887) aveva eseguito nella Biblioteca del Museo Zoologico. All’influenza del pittore tedesco va attribuito il parziale distacco di Franchetti dalla fedeltà naturalistica, il suo avvicinamento al simbolismo mitico e un prestito figurativo ai classici, avvertibile nell’armonia dei gesti e degli atteggiamenti delle monumentali figure di Nudi alla fontana, opera riferibile al 1927 sulla quale l’artista lavorò a lungo.
Durante un viaggio in Tunisiaintrapreso nel 1927 in compagni di Giannotto Bastianelli, musicista geniale e uomo dalla forte spiritualità, soggetto a profonde crisi esistenziali, l’amico fraterno che aveva già tentato il suicidio nel 1924, si toglierà la vita, lasciando Franchetti in un profondo stato di prostrazione, dal quale sembra non si sia mai più ripreso. Lo stesso tragico gesto compiva l’artista qualche anno dopo a Roma (1931), poneva fine alla sua vita annegandosi nelle acque del Tevere.
Giovanna Bacci di Capaci
[1]F. CAGIANELLI – S. FUGAZZA, Francesco Franchetti 1878 – 1931. I percorsi dell’orientalismo in Toscana, Livorno, 2007.
[2]G. COLACICCHI, Francesco Franchetti, Dipinti e disegni, Catalogo della mostra (Firenze 1979), Bagno a Ripoli 1979
[3] Notizie tratte da Franchetti – Mondolfi 1906. Percorsi di una famiglia ebraica livornese in un manoscritto inedito intorno alle Biografie di Francesco Pera, a c. di F. CAGIANELLI, Livorno 2006, pp.61-62.
[4] Due romanzi scritti da Ebe, Le città del silenzio e Villeggiatura d’autunno, saranno pubblicati postumi a cura del figlio Simone, che si attiverà anche per promuovere l’arte del padre Francesco, organizzandogli due mostre retrospettive a Firenze, nel 1953 alla Galleria Spinetti e nel 1979 al Gabinetto Vieusseux, in collaborazione con Giovanni Colacicchi. Simone Franchetti, uomo equilibrato e colto, dalle alte qualità morali e gran signore, è stato un importante e ben noto scienziato nel campo della fisica generale, ha scritto opere scientifiche ed è stato a lungo alla direzione dell’Istituto di Fisica A Garbasso, trasformato poi in Dipartimento di Fisica dell’Università degli Studi di Firenze. Sospeso dall’incarico prima della guerra per le ben note questioni razziali, fu anni dopo reintegrato nei ruoli universitari.
[5] L’Africa, per quanto corroborante, non riuscirà a far uscire del tutto l’artista dal suo male di vivere, dalle lettere inviate ad Ebe durante i soggiorni arabi spesso si avverte il suo muto disagio esistenziale, quando non viene dichiarato, come nella lettera del gennaio 1912 …mi sento proprio demolito, stanco senza un’idea e con così poca speranza sull’avvenire (CAGIANELLI, p. 121).
[6]F. CAGIANELLI, op. cit., p.31. La produzione orientalista di Franchetti nella sua completezza è stata presentata in occasione della mostra recentemente allestita presso la Villa del Presidente a Livorno, ed è riprodotta nel già citato contributo alla conoscenza dell’artista di Francesca Cagianelli.
[7] M. TINTI, Francesco Franchetti, in La Fiorentina Primaverile, catalogo della mostra, Firenze, 1922, pp. 100-101.
[8]Franchetti lavorò nello studio all’ultimo piano della Torre degli Armidei dagli inizi del 1900 al 1925.
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