Emilio Ambron
Il sentimento del nudo e la magia dell’Oriente
Inaugurazione: 27 Agosto alle ore 18.00
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Questa mostra, come le molte che l’hanno preceduta in tutto il mondo, dalle prime allestite a Alessandria d’Egitto nel 1922, al Cairo nel 1924 e a Pechino nel 1941, per poi passare in un incredibile estensione geografica tra Saigon, Angkhor, Siena, Milano, Firenze, Bruxelles, Venezia, Parigi, Cracovia, Bali, conferma la statura cosmopolita di Emilio Ambron e la sua eccellenza nel disegno che ne fa l’erede dei grandi maestri a cui si è ispirato, soprattutto quando cimentandosi con l’antica e difficile tecnica dell’affresco si è confrontato con Duccio, Simone Martini, Botticelli, Signorelli, addirittura con Michelangelo, ma anche con chi, come il grande Puvis de Chevannes, aveva restituito i muri dipinti alla modernità.
Come il Picasso che nel primo dopoguerra ritorna alla figurazione e alla classicità, Ambron ci ha proposto in una lunghissima carriera decollata negli anni venti (era nato a Roma nel 1905 e morirà a Firenze nel 1996) un universo di forme che riescono a vivere, proprio per la magica solidità dei volumi e l’intensità delle atmosfere create, in una dimensione senza tempo al di là dei condizionamenti delle mode che hanno continuamente mutato e messo in discussione i percorsi artistici del Novecento. Questo uomo curioso, viaggiatore irrequieto, alla deriva dei continenti, Europa, Africa e Asia, dove si scandiscono le diverse stagioni della sua vita, sembra ogni volta saper approdare ad un porto sicuro che è quello del dominio dell’arte sulla fragilità mutevole della natura trasfigurata e come fermata in immagini che raggiungono una tale capacità di sintesi da rendere monumentali anche gli aspetti più quotidiani. Egli privilegia infatti, sia nei numerosissimi disegni (che sono sempre stati il registro espressivo a lui più congeniale) che nelle sculture (cui si è dedicato con una frequenza più esclusiva negli anni ottanta e novanta) la rappresentazione della figura, soprattutto quella femminile, catturata e bloccata nella naturalezza di movimenti e gesti quotidiani trasformati in pose liriche, sospese o addirittura solenni, senza perdere mai, anche nell’evidente artificio dell’idealizzazione, una dimensione intima e sempre partecipata.
La sua straordinaria capacità di sintesi che gli consente di comprendere e rappresentare l’essenza del reale non si traduce mai in una figurazione accademica, inerte, ma racchiude in sè una forza dinamica che gli deriva da una profonda cultura, maturata in ambienti sempre d’eccezione, riconducibile alle magiche atmosfere dei luoghi in cui è vissuto e alla singolarità della sua formazione. I suoi primi anni trascorsero tra la fiabesca residenza “moresca” dei Parioli, in cui era nato, e la misteriosa villa di Alessandria d’Egitto, residenza del padre Aldo, ingegnere edile impegnato in imprese importanti come la costruzione del porto di Alessandria. La sua vocazione venne favorita dall’essere figlio d’arte, per parte della madre, Amelia, “signora elegante, fragile e graziosa, se pure volitiva”, con un’ “espressione diversa dalle altre signore” (come la definì Elica Balla, quando accompagnò il padre che era andato da lei per farle il ritratto), protagonista dei salotti romani e pittrice di talento sotto la guida di quell’Antonio Mancini che rimane il grande sopravvissuto di una civiltà dell’Ottocento che non intendeva tramontare, insieme con Innocenti, Coleman, Sartorio, Bistolfi, Canonica, Ierace, Cifariello, Gemito, Michetti, tutti frequentatori eccellenti della bellissima villa dei Parioli.
Ma per Emilio sarà decisivo proprio l’incontro, probabilmente favorito da Filippo Tommaso Marinetti altro amico di famiglia, con Giacomo Balla che, ormai transfuga dal Futurismo, venne scelto come il migliore maestro, quando i genitori decisero che il giovanissimo Emilio dovesse divenire pittore. La frequentazione dello studio dell’artista in via Paisiello, dominato dalla presenza di impressionanti capolavori della fase divisionista come La pazza o la testa colossale della madre, diventò per sei anni , a partire dal 1922, quasi quotidiana, ad eccezione dei periodi che venivano trascorsi nella stimolante e colta atmosfera di Alessandria d’Egitto, attraversata dai brividi delle avanguardie. Non dimentichiamo che vi era nato nel 1888 Giuseppe Ungaretti.
Per rassicurare la madre dei progressi del figlio, nel 1926 Balla invia un biglietto a Amelia Ambron: “Emilio – le scrive- continua sempre con crescente volontà entusiasmo lo studio rigido e severo del nudo, il suo pennello consuma tele e colori ma acquista esperienze superiori. Quanti giovani dovrebbero imitarlo”. In realtà il suo “classicismo moderno”, come è stato appropriamente definito da Susanna Ragionieri, nel catalogo della bella mostra retrospettiva allestita nel 1998 all’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze, è stato inimitabile e rimaniamo davvero incantati davanti alla calma nobiltà dei suoi nudi impastati di luce, sia quelli costruiti con ampie sintetiche taches di colore nei dipinti, sia quelli definiti dal segno pastoso della matita e del carboncino su fogli di carta immacolata. A volte in grandi dimensioni che evocano la monumentalità dei cartoni prepartori ai cicli di affreschi degli anni cinquanta, come quello con L’incontro di Dante e Sapia realizzato tra il 1951 e il 1954 per la biblioteca dell’Accademia Musicale Chigiana di Siena, su incarico di uno dei maggiori mecenati del Novecento il conte Guido Chigi Saracini, o il grande pannello con La Fonte Aretusa del 1958 destinato al Salone d’Onore del Padiglione Italiano dell’Esposizione Universale di Bruxelles.
In questo caso, affrontando temi ormai inconsueti e declinanti nel mito classico o nell’epica moderna, raggiunge una dimensione atemporale e emblematica, diversa rispetto a quella determinata da una creatività legata invece ai suoi viaggi, come quello del 1928 in Eritrea e Somalia al seguito del Duca degli Abruzzi, o ai decisivi soggiorni a Bali che, dal 1939 al 1946, e poi ancora, a partire dal 1968, quando alterna le trasferte nell’isola alla frequentazione della tenuta di famiglia a Cotorniano, nel senese, diventa quasi una sua seconda patria. Il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, cui Ambron donò nel 1958 un vasto gruppo di fogli bellissimi, e il Museo Civico di Bali, cui ha lasciato una serie di opere da lui stesso scelte, conservano una adeguata testimonainza della sua creatività nei luoghi fondamentali per la sua esperienza esistenziale e la sua cultura.
Le scene di vita, i monumenti di una civiltà tanto diversa e le figure incontrate in Egitto o a Bali sono rese con una forza sintetica che ha un sapore antico, che evoca i nitori volumetrici di Masaccio, di Paolo Uccello o di Piero della Francesca, e insieme moderno, derivato dal retaggio di Balla e soprattutto dalle sue letture predilette, Mark Twain, di cui ricordava a memoria i romanzi, o lo Steinbeck epico dei Pascoli del Cielo. Proprio per questi debiti dichiarati e certe soluzioni che rimandono a Winslow Homer, la sua pittura di carattere decorativo e monumentale, soprattutto gli straordinari affreschi senesi, è stata accostata ai murali dell’americano Thomas Hart Benton, esponente dell’ Agrarian Tradition e autore dell’imponente fregio American Today per la New School Nudo di for Social Research a New York realizzato con l’antico procedimento della tempera a uovo. Anche in Ambron c’è la stessa nostalgia per una dimensione arcaica e rurale da contrapporre all’urbanizzazione ed è proprio per questo che si sente più a suo agio e riesce a creare nella solitudine di Anticoli Corrado, fuori Roma, dell’amata Cotorniano e soprattutto di Bali. A questa scelta non deve essere stata estranea la suggestione dell’ambiente attorno alla rivista “Il Selvaggio” e la lunga amicizia con il pittore Baccio Maria Bacci, impegnato a partire dagli anni venti nel recupero della tecnica dell’affresco. Ambron collaborò con lui, nel 1937, all’esecuzione delle storie di San Francesco nel convento della Verna.
A Bali, dove ha avuto, nonostante che l’isola cominci ad essere frequentata dai primi turisti, la “rivelazione di un mondo naturale in contrasto con l’artificio che mi circonda. Qui –sottolinea- i corpi in movimento si misurano all’ambiente selvaggio”. I magnifici disegni, che per tutto il resto della sua vita riflettono questa esaltante esperienza, isolano in forme di nudi, a volte incisi da un segno che ricorda Matisse, la elegante gestualità che conferisce “alle occupazioni giornaliere” dei balinesi “l’impronta di un sogno”. Egli riflette come per questi indigeni innocenti la pittura sia “soprattutto una storia narrata” che “non ha bisogno di riflettere tempo e distanza”. E con il suo disegno, diventato sempre più ritmico e cerimoniale, si accosta alle cadenze dell’ “arte asiatica” priva di “una visione prospettica”, sviluppandosi tutto “nel piano del foglio e della tela sottile –scrive nel 1939- come nelle antiche pitture murali dove l’artista cerca di fissare per sempre l’essenza di una scena vissuta, non i dettagli”. Confessa infine che “queste riflessioni accompagnano il mio lavoro per ore. E poi stanco, lascio i pennelli e vado a riposarmi sulla spiaggia di Sanur. Semidisteso sulla sabbia, osservo le conchiglie abbandonate dalla bassa marea”.
Forse in questo abbandono panico sta il vero segreto della sua capacità di creare una bellezza senza tempo, come quella inseguita da D’Annunzio nei Madrigali dell’estate:
Come scorrea la calda sabbia lieve per entro il cavo della mano in ozio,
il cor sentì che il giorno era più breve
E un’ansia repentina il cor m’assalse per l’appressar dell’umido equinozio
che offusca l’oro delle piagge salse.
Alla sabbia del Tempo urna la mano
Era, clessidra il cor mio palpitante,
l’ombra crescente d’ogni stelo vano
quasi ombra d’ago in tacito quadrante.
(La sabbia del tempo).